L’Italia piange l’alpino ucciso. Negare un conflitto significa perderlo. Combattere o ritirarsi subito!
Il caporal maggiore Matteo Miotto è tornato a casa ieri, dentro una bara e avvolto in un tricolore.
E’ atterrato alle 10:15 all’aeroporto di Ciampino il C-130 dell’Aeronautica militare con la salma dell’alpino ucciso lo scorso venerdì in Afghanistan. Ad attenderlo, insieme ai familiari del militare, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta, il ministro della Difesa Ignazio La Russa e il capo di Stato maggiore della Difesa Vincenzo Camporini, in rappresentanza anche del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, impossibilitato a recarsi a Ciampino in quanto influenzato.
L’autopsia, condotta dal Prof. Paolo Arbarello, parla di un solo colpo letale tra collo e spalla, che ne ha provocato l’immediato decesso. Si è parlato spesso, in questi anni di missioni, dei veri obbiettivi che il contingente italiano ha intenzione di portare avanti col suo impegno in terra afghana. Che non sia una missione di pace, questo sembra chiaro. Imporre la democrazia è una contraddizione in termini, un po’ come quella pace bellica che decima lentamente e costantemente i nostri soldati. Non si può aver paura di prendere una posizione e tentare di mascherarla dietro una serie di ossimori che portano solo alla morte di giovani italiani.
La provocazione che vogliamo lanciare solleverà forse qualche polemica ma confidiamo che venga percepita per come intendiamo comunicarla: se in Afghanistan c’è bisogno di fare la guerra, che si faccia la guerra, non sarebbe la prima e, purtroppo, non sarà l’ultima. Alleiamoci con l’esercito afghano, proteggiamo la popolazione, ma mettiamoci in condizione di rispondere alla guerriglia quotidiana e sfibrante con un’azione decisa e risolutiva. Quello che sta succedendo adesso e che va avanti da anni, non avrà mai fine. I talebani hanno roccaforti inespugnabili, una fede incrollabile, risorse economiche e, talvolta, equipaggiamenti migliori dei nostri. I guerriglieri potrebbero vivere per sempre in questa condizione e noi, per sempre, potremmo continuare a morire. Il risultato di questa missione internazionale è, già da ora, davanti agli occhi di tutti: quando i contingenti lasceranno quelle lande desolate i governi locali torneranno a prendere il sopravvento. L’Iraq insegna. Nella terra di Saddam Hussein, dopo un drammatico incremento della violenza fra l’inizio del 2006 e la metà del 2007, durante il quale le tattiche di guerriglia e terrorismo adottate dalla resistenza hanno spinto sempre più nel caos buona parte dell’Iraq, negli ultimi mesi si è assistito ad un leggero miglioramento della situazione militare, per via dell’incremento delle truppe USA e della capacità di spezzare l’unità della resistenza sunnita attraverso alleanze con le sue componenti “tribali”. Tuttavia lo stesso comando americano ammette che queste misure non sono sostenibili nel lungo periodo. È una missione senza possibilità di riuscita quella irachena ed è la stessa cosa per quella afghana. Ci si guardi negli occhi e si prenda una decisione: o si fa la guerra e si combatte ad armi pari, o si ritirano le truppe sin da subito. È significativa la sottolineatura del Prof. Arbarello dopo l’autopsia sul caporal maggiore Miotto: «L’equipaggiamento era assolutamente adeguato, c’erano tutte le protezioni adeguate, è stata una circostanza assolutamente sfortunata». Da dove nasce la necessità di assicurare che l’equipaggiamento e le protezioni erano adeguate? Solo da un fatto: che il più delle volte non lo sono, che non abbiamo i soldi per mandare i nostri ragazzi a combattere supportati come sarebbe loro dovuto. E questo mentre i guerriglieri assoldano soldati stranieri, cecchini dall’altissima professionalità, capaci di colpirti sul collo a centinaia di metri di distanza. I funerali solenni di Miotto saranno celebrati oggi nella Basilica di Santa Maria degli Angeli. Subito dopo la partenza per Thiene, dove domani mattina si svolgeranno le esequie in forma privata.
È inutile ingannarci con le parole, questa pace fa più vittime di una guerra vera. Combatterla o ritirarci, altrimenti le bare con i tricolori saranno le uniche tragiche realtà di un conflitto negato e, per questo, già perso.
Alessio Moriggi