Se ci si cambia in fabbrica il tempo per la tuta va pagato
Se l’operazione deve avvenire sul luogo di lavoro e non a casa Il datore di lavoro deve retribuire anche questo periodo
Dopo un’estate sindacalmente calda, di contratti al ribasso e di lavoratori umiliati, arriva per «Cipputi» una piccola – ma non trascurabile – rivincita non o solo morale ma addirittura economica: in certi casi il tempo per cambiarsi e mettersi la tuta deve essere remunerato.
La Cassazione ha, infatti, dato ragione ai lavoratori, operai e impiegati, che indossano la tuta nello spogliatoio aziendale: il tempo necessario a cambiarsi deve essere pagato perché viene usato a vantaggio del datore passando tra tornelli, timbrature e corridoi senza avere la libertà di cambiarsi a casa. Dato che l’azienda ha deciso che avvenga proprio in fabbrica, e non a casa.
A perdere il ricorso alla Suprema Corte è stata la Unilever, uno dei colossi mondiali del settore alimentare e dei prodotti per l’igiene della casa e della persona, con quattromila dipendenti dislocati in cinque stabilimenti produttivi e 2,8 miliardi di euro di fatturato soltanto in Italia.
Senza successo gli avvocati di Unilever hanno chiesto alla Cassazione di annullare il verdetto con il quale la Corte di Appello di Roma, nel 2005, accogliendo la richiesta di alcuni dipendenti, aveva stabilito che fossero conteggiati in busta paga, per 45 settimane l’anno, i dieci minuti quotidiani impiegati per infilarsi la tuta.
Contro la cosiddetta «monetizzazione » dei minuti passati nello spogliatoio, l’azienda ha sostenuto che il “tempo tuta” «non richiede applicazione assidua e continuativa ed è equiparabile ad un riposo intermedio ovvero al tempo necessario per recarsi al lavoro».
I supremi giudici non hanno condiviso questa tesi. «Se è data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo dove indossare la divisa (anche presso la propria abitazione prima di recarsi al lavoro), la relativa attività – spiega la Suprema Corte – fa parte degli atti di diligenza preparatori allo svolgimento dell’attività lavorativa, e come tale non deve essere retribuita ».
Invece, prosegue la Cassazione con la sentenza 19358, «se tale operazione è diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo e il luogo di esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito».
Nel caso della Unilever, le modalità di «vestizione» erano stabilite dalla stessa azienda e prevedevano quattro timbrature di cartellino, il passaggio in più tornelli e il percorso di un lungo corridoio.